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04_Mushotoku, l’azione senza scopo

Mushotoku, l’azione senza scopo. Mushotoku è lo spirito di non-profitto: senza scopo, senza un oggetto o un obiettivo definito, con purezza e autenticità. «Quando praticate il Buddha-Dharma – scrive Dȏgen Zenji – non dovreste farlo per vostro vantaggio. Astenetevi dall’inseguire o dal rifiutare qualunque cosa. Liberatevi dal desiderio per la fama e il profitto. Non praticate zazen nell’intento di guadagnare una buona reputazione». E’ l’esercizio di zazen-shikantaza: solo e semplicemente seduti, nient’altro che seduti. In ogni azione della vita è possibile applicarsi allo stesso modo, spendendosi completamente in ogni cosa.

Lo spirito di non-profitto è il genuino esercizio della libertà, il segreto della pratica.

«Zazen è inutile, non serve a niente!» diceva Kȏdȏ Sawaki «il progetto umano non lo subordina. Anche il desiderio di liberarsi dalla noia o dalla sofferenza, di realizzare la pace dello spirito o di ottenere la saggezza è solo fabbricazione umana. Il risveglio è disfarsi di se e di ogni ricerca. Nessun attaccamento, nessuna aspettativa – perdita assoluta»…

Inconsciamente, irriducibilmente liberi: mushotoku è l’abbandono di se, dei propri pensieri, delle costruzioni mentali…

Dai Kûsen di Taisen Deshimaru – Sette principi dello Zen Sȏtȏ nell’insegnamento di Dȏgen Zenji, versione a cura di F. Taiten Guareschi – Istituto Italiano Zen Sȏtȏ

03_La non-paura della morte

La non-paura della morte

Un monaco andò in città, portatore di un plico importante da dare personalmente al suo destinatario. Arrivò ai confini della città e, per entrarvi, dovette traversare un ponte. Sul ponte stava un samurai esperto nell’arte della sciabola e che, per provare la sua forza e la sua invincibilità, aveva fatto il voto di provocare in duello i primi cento uomini che avrebbero attraversato il ponte. Ne aveva già uccisi novantanove. Il piccolo monaco era il centesimo. Il samurai gli lanciò perciò una sfida. Il monaco lo supplicò di lasciarlo passare, perché il plico che aveva era di grande importanza.

“Vi prometto di tornare a battermi con voi una volta compiuta la mia missione”. Il samurai accettò, e il giovane monaco andò a portare la sua lettera.

Prima di tornare sul ponte, andò dal suo maestro per fargli i suoi ultimi saluti, certo di essere perduto.

“Devo andare a battermi con un grande samurai, disse, è un campione di sciabola e io non ho mai toccato un’arma in vita mia. Sarò ucciso…

“In effetti, gli rispose il Maestro, morirai perché non c’è per te nessuna possibilità di vittoria, non hai perciò più bisogno di aver paura della morte. Ma ti insegnerò la miglior maniera di morire: terrai la tua sciabola al di sopra della testa, gli occhi chiusi, e aspetterai. Quando sentirai freddo alla sommità del capo, quella sarà la morte. Soltanto in quel momento abbandonerai le braccia. È tutto …”

Il piccolo monaco salutò il Maestro e si diresse verso il ponte dove lo attendeva il samurai. Questi lo ringraziò di aver mantenuto la parola e lo pregò di mettersi in guardia. Il duello cominciò. Tenendo la sciabola con due mani, il monaco l’alzò al di sopra della testa, e attese senza muoversi. Quell’atteggiamento stupì il samurai, perché la posizione che aveva preso il suo avversario non rifletteva né la paura né il timore. Sospettoso avanzò prudentemente. Impassibile, il monaco era concentrato unicamente sulla sommità del proprio cranio. Il samurai disse fra sé: “Quest’uomo è sicuramente molto forte, ha avuto il coraggio di tornare a battersi con me, certamente non è un dilettante”.
Il monaco, sempre assorto, non prestò alcuna attenzione ai movimenti di andirivieni del suo avversario. Costui cominciò ad avere paura: “E senza alcun dubbio un grandissimo guerriero, pensò; solo i Maestri di sciabola prendono dall’inizio di un combattimento una posizione d’attacco. E in più, lui, chiude gli occhi”.
E il giovane monaco attendeva sempre il momento in cui avrebbe sentito quel famoso freddo alla sommità della testa.
Durante quel tempo, il samurai era completamente sconnesso, non osava più attaccare, certo di essere tagliato in due al minimo gesto. Da parte sua il monaco aveva completamente dimenticato il samurai, attento unicamente ad applicare bene i consigli del Maestro, e morire degnamente. Furono le grida e i pianti del samurai che lo riportarono alla realtà:

“Non mi uccidete, abbiate pietà di me, credevo di essere il re della sciabola, ma non avevo mai incontrato un maestro come voi. Per favore, per favore, accettatemi come discepolo, insegnatemi la Via della sciabola…”.

Tratto da: “Lo zen passo per passo” di Taisen Deshimaru Roshi

02_“Vita di Siddharta il Buddha” di Thich Nhat Hanh

«Quel giorno, il discorso del Buddha fu molto particolare. Attese che i bambini si fossero messi a sedere tranquilli, poi lentamente si alzò, prese un fiore di loto e lo tenne alzato di fronte alla comunità senza dire una parola. Tutti sedevano immobili. A lungo il Buddha tenne in alto il fiore in silenzio. Gli astanti erano perplessi e si chiedevano cosa volesse comunicare. Infine il Buddha abbracciò con lo sguardo l’assemblea, sorrise e disse: “Io ho l’occhio del vero
Dharma, il tesoro della visione meravigliosa, e in questo momento l’ho trasmesso a Mahakassapa”.
Tutti si voltarono verso il venerabile Kassapa, e lo videro sorridere. I suoi occhi non si erano staccati dal Buddha e dal loto che teneva in mano. Quando gli sguardi ritornarono al Buddha, videro che anche lui guardava il fiore e sorrideva.
Svasti, benché perplesso, sapeva che la cosa principale era mantenere la presenza mentale.
Ritornò al respiro mentre nel contempo guardava il Buddha.
Il bianco fiore di loto era appena dischiuso. Il Buddha lo reggeva con dolcezza e solennità. Teneva il gambo tra il pollice e l’indice, e il fiore ripeteva la forma della sua mano. La mano del Buddha era
bella come il fiore, pura e meravigliosa.
Allora, improvvisamente, Svasti vide la pura e nobile bellezza del fiore. Non occorreva ricamare pensieri. Spontaneamente, il sorriso gli fiorì sul volto. “Amici” incominciò il Buddha, “questo fiore è una meravigliosa realtà. Tenendolo qui davanti a voi,
tutti potete sperimentarla. Entrare in contatto con un fiore è entrare in contatto con una realtà meravigliosa, entrare in contatto con la vita stessa. “Mahakassapa ha sorriso per primo, perché è entrato immediatamente in contatto con il fiore. Sin
tanto che gli ostacoli ostruiscono la vostra mente, non potete entrare in contatto con un fiore. Molti di voi si sono chiesti: ‘Perché mai Gautama tiene alto quel fiore? Che senso avrà il suo gesto?’ Ma,
se la vostra mente è intasata da tali pensieri, non potete sperimentare realmente il fiore.
“Amici, perdervi nei pensieri vi impedisce di entrare in contatto con la vita. Se vi lasciate dominare dalla preoccupazione, la frustrazione, l’ansia, l’ira o l’invidia, perdete la possibilità di entrare in
contatto con le meraviglie della vita.
“Amici, il loto nella mia mano è reale solo per quelli di voi che dimorano in consapevolezza nel momento presente. Finché non sarete ritornati al momento presente, il fiore non esisterà davvero.
Vi sono persone che attraversano una foresta di alberi di sandalo senza vederne neppure uno. La vita è colma di sofferenza, ma racchiude anche molte meraviglie. Siate consapevoli, e vedrete sia
la sua sofferenza sia la sua meraviglia.
“Essere in contatto con la sofferenza non significa perdersi in essa. Essere in contatto con la meraviglia non significa perdersi in essa. Essere in contatto significa incontrare la vita, vederla in
profondità. Incontrandola direttamente, ne comprendiamo la natura interdipendente e impermanente.
Grazie a ciò, non ci perdiamo più nel desiderio, nell’ira e nella brama. Dimoriamo invece nella libertà e nella liberazione».

Tratto da “Vita di Siddharta il Buddha” di Thich Nhat Hanh

01_Diario di quarantena

Nello Shȏbȏgenzȏ, Dȏgen Zenji dice che donare (in sanscrito dāna) è una delle sei perfezioni o parāmitā (in sanscrito, parāmitā significa “ciò che è arrivato all’altra sponda” o “ pienamente realizzato”).
Non conta ciò che si dà. Si può donare una singola parola o una frase di insegnamento, una monetina e perfino un filo d’erba. Tutto ciò che facciamo può essere dono.
Per Dȏgen, il dono più prezioso è quello dell’Insegnamento. “Trasmettere, anche una sola riga di insegnamento a qualcuno – dice – può essere come fornirgli un traghetto”, un appiglio per raggiungere l’altra sponda, il Nirvana.
In questi giorni in cui ci troviamo a casa, in seguito alle circostanze legate all’epidemia del nuovo Covid 19, abbiamo deciso di pubblicare alcuni passi degli insegnamenti dei Maestri della Tradizione, nella speranza che le loro parole possano essere, per tutti, un traghetto!

Mente di principiante

“Nella mente di principiante ci sono molte possibilità, in quella da esperto poche”.

La gente dice che praticare lo Zen è difficile, ma fraintende il perché. Lo Zen non è difficile perché è duro sedere con le gambe incrociate nella posizione del loto, o ottenere l’illuminazione. È difficile perché è arduo mantenere pura la nostra mente e pura la nostra pratica nel suo senso fondamentale. (…)
In Giappone abbiamo un’espressione, shoshin, che significa “mente di principiante”. Il fine della pratica è sempre quello di conservare la nostra mente di principiante. Immaginate di recitare il Sutra della Prajna Paramita una volta sola. Sarebbe un’ottima recitazione. Ma che cosa vi accadrebbe recitandolo due, tre, quattro volte, o ancora di più? Con molta probabilità perdereste la vostra disposizione originaria nei suoi confronti. Lo stesso vi accadrà per le altre pratiche zen. Per un po’ conserverete la mente di principiante, ma, continuando a praticare per uno, due, tre anni o più, nonostante possiate ottenere qualche miglioramento, rischiate di perdere. l’illimitato significato della mente originaria.

Per gli adepti zen la cosa più importante è non essere dualistici.

La nostra “mente originaria” racchiude tutto in sé. Dentro di sé è sempre ricca e autosufficiente. Non dovete perdere lo stato mentale di autosufficienza. Ciò non significa una mente chiusa, bensì una mente vuota e pronta. Se la vostra mente è vuota, è sempre pronta per qualsiasi cosa; è aperta a tutto. Nella mente di principiante ci sono molte possibilità; in quella da esperto, poche.
Se discriminate troppo, vi limitate. Se siete troppo esigenti o avidi, la vostra mente non è ricca e autosufficiente. Perdendo l’originaria mente autosufficiente, perderemo tutti i nostri principi. Se la vostra mente si fa esigente, se bramate qualcosa, finirete per violare i vostri stessi principi: non mentire, non rubare, non uccidere, non essere immorali, e così via. Se conservate la vostra mente originaria, i principi si conserveranno da soli.
Nella mente di principiante non si trovano mai pensieri del tipo: “Io ho ottenuto qualcosa”. Ogni pensiero egocentrico limita la nostra vasta mente. Quando non abbiamo alcun pensiero di conseguimento, alcun pensiero di un “se”, allora siamo dei veri principianti. Allora possiamo realmente imparare qualcosa. La mente di principiante è la mente della compassione. Quando la nostra mente è compassionevole, diventa sconfinata. Dogen-zenji, il fondatore della nostra scuola, non cessava mai di sottolineare quanto sia importante riacquistare la nostra sconfinata mente originaria. Allora siamo sempre veri di fronte a noi stessi, in armoniosa assonanza con tutti gli esseri, e possiamo attuare sul serio la nostra pratica.
Dunque la cosa più importante è conservare sempre la mente di principiante. Non c’è alcun bisogno di possedere una profonda conoscenza dello Zen. Anche se leggete molta letteratura zen, ogni passo va letto con mente fresca. Non dovreste dire: “So che cos’è lo Zen”, oppure “Ho raggiunto l’illuminazione”. È questo anche il vero segreto dell’arte: essere sempre un principiante. Mi raccomando, state molto attenti a questo punto. Se cominciate a praticare zazen, comincerete ad apprezzare la vostra mente di principiante. È il segreto della pratica zen.

Dal prologo del libro “Mente zen mente di principiante”

di Shunryu Suzuki Roshi

la contemplazione

“Ryòkan* amava molto la luna. Un giorno andò a trovarlo un amico, uno studioso che componeva poesie, calligrafo. Spesso, la sera, stavano insieme molte ore. Quel giorno Ryòkan stava praticando Zazen. L’amico arrivando lo vide, non disse niente e si sedette accanto a lui. Si fece tardi, venne la luna e a quel punto Ryòkan si alzò, salutò l’amico e gli propose di bere insieme un po’ di saké. Entrambi l’avrebbero bevuto volentieri, ma Ryòkan non ne aveva, così uscì dall’eremo con una fiaschetta e si incamminò, giù dall’ alta montagna, per andare a prenderlo in città. L’amico restò per ore ad attenderlo, poi cominciò a preoccuparsi e andò a cercarlo. Scendendo dalla montagna tutto era luminoso di luna. Lungo il sentiero si stagliava il profilo di un grande albero, e sotto era seduto Ryòkan che guardava la luna. Sentendo la voce dell’amico che lo chiamava, gli disse “Guarda, non è stupenda questa luna?” “Sì, ma dov’è il saké ?” “Ah adesso vado a prenderlo!”.Contemplando la luna aveva dimenticato tutto.”

Tratto da: Annuario dell’Istituto Italiano Zen Soto Shobozan Fudenji, 1998

 

* Ryòkan Daigu, monaco Zen Soto e poeta (1758? – 1831)

La Via dello Zen

Sabato 23 Marzo 2019 presso Yoga Aventino via delle Terme Deciane , 10, Roma
La Via dello Zen

Programma
ore 15.00-15.20 registrazioni
ore 15.30-16.30 introduzione alla meditazione Zen
ore 16.30-19.30 intervento del rev. Rosella Myoren Giommetti (Tempio Shobozan Fudenji) sul tema “La vita e l’insegnamento di Dogen Zenji”

Per partecipare, ricordiamo di indossare abiti comodi.
Vi invitiamo a restare fino alla fine dell’incontro
L’incontro è gratuito e aperto a tutti (occorre iscriversi).
Per informazioni e iscrizioni, e-mail info@shobogendo.it cell. 3491711268